Tiffany McDaniel riesce a raccontare una famiglia disfunsionale con voce poetica e musicale.
La seguiamo in rigoroso silenzio, attratti da una scrittura che sa entrare nei labirinti del dolore.
Ci sentiamo piccoli e insignificanti di fronte alle tragedie, alla disperazione, alle ferite.
I traumi infantili della madre, piaghe purulente, difficili da dimenticare.
“Mia madre era di quelle ragazzine sventurate che vivono un’infanzia da cui si desidera solo fuggire.
A meno che non si abbia nessun posto dove andare.”
I rapporti tra fratelli che sconfinano nei territori scivolosi del peccato.
Il colore della pelle, marchio indelebile in una società razzista.
“Il caos da cui veniamo”, pubblicato da Atlantide e tradotto da Lucia Olivieri, spiazza per la sincerità della narrazione.
Non ci sono filtri ma è proprio questa necessità di tradurre in parole quel grumo complesso che preme a rendere la storia meravigliosa.
La struttura si sviluppa seguendo la crescita della voce narrante, scandita dal tempo come se si sfogliasse un diario.
Colpiscono i colori che si trasformano in emozioni, le tante storie che forse sono solo invenzioni, la difficoltà a credere in un Dio buono.
Un destino o una tara ereditaria? Non ci sono risposte e frettolose giustificazioni.
Non si salva nessuno da questa complessità che si chiama esistenza.
Prevale il senso di colpa per non aver saputo fermare chi stava naufragando.
Ogni capitolo è preceduto da un brano della Bibbia, quasi a voler smorzare i toni, a dare luce all’abisso.
“Sarò ricordata per quello che ho fatto.
E per quello che non ho fatto.
Sarò ricordata per il mio caos.”
Che consistenza ha il caos e quanto è difficile uscire dalle sue spire?
Un omaggio a coloro che non sono stati eroi per mancanza di opportunità ma che hanno vissuto con fatica e sudore.
Un invito a continuare ad affidarsi a chi ci ha lasciato.