“Adesso devo stare in silenzio
Evitare anche di scrivere
Non fare niente
Aspettare.”
Attesa di una rivelazione, raggio di luce che si fa Parola.
Ricerca del sè e dell’Altro senza mistificazioni e infingimenti.
Discendere nel profondo dell’anima.
Interrogarsi sui misteri dell’esistenza.
Incontrare una spiritualità che sa affrontare il dubbio.
Far riemergere ricordi d’infanzia e quell’angelo pronto a dire “amen”.
Scegliere il sogno come forma narrativa che, interpretata, svela segni e orme da seguire.
Inseguire la tridimensionalità di una pietra, comprendere l’enigma del Triangolo, vivere il bisogno arcaico della Croce.
Sperimentare il viaggio e farsi Ulisse senza l’illusione di trovare la propria Penelope.
“Il Dio dei crocicchi”, pubblicato da Mattioli 1885, è contaminazione di stili, perfetta sinergia tra poesia e prosa.
Ha il ritmo di un diario e nella scansione dei giorni trascorsi in Galizia il Tempo si muove con straordinaria lentezza.
E il lettore si immerge nelle infinite suggestioni, cerca il suo doppio, comprende che:
“L’identità è fluida.”
Impara a diventare “Nessuno”, si aggrappa al “narratore oscuro che dispone le vie.”
Si chiede chi muove le fila dell’assurdo teatrino che contamina la bellezza.
La scrittura di Pier Franco Brandimarte è arte nella sua forma più pura.
È il dubbio che si frammenta in mille rivoli.
È certezza che esiste il Centro.
“Il libro ha la forma dell’asterisco.
Il centro qual è?
Il centro non c’è.
Il centro è la pagina, il bianco che tutti i testi hanno in comune.”
Il bianco da riempire con fatica, ingegno, creatività dando ai fonemi un respiro nuovo.
La perdita di coscienza e i labirinti, la consapevolezza che amore è anche dolore, la ripida discesa e il bisogno di essere maschera che danza nella notte.
Da leggere come fosse una meditazione provando a liberarsi da tutte “le categorie ideali.”
Osservando la nebbia mentre Ermes si dilegua lasciando la libertà di essere parte della narrazione.